Prendete un elefante. Mettetelo in una stanza. E ignoratelo. Non è un modo di dire. È successo davvero. A Chicago, negli anni 60. Nello zoo viveva un elefante indiano di nome Ziggy. Divenne famoso perché rimase incatenato per trent’anni in una stalla dopo aver aggredito il custode. Fino a quando il Chicago Tribune non gli dedicò un articolo.
Pare che la frase idiomatica “un elefante nella stanza” sia nata proprio negli anni di Ziggy. Venne usata da alcuni quotidiani dell’epoca in modo ironico per parlare di qualcosa che, nonostante l’importanza, viene ignorato. Così come è capitato a Ziggy.
Chi sa cosa vuol dire essere ignorati è Joseph Carey Merrick. Con la sua storia David Bowie debuttò a Broadway: si trattava di un tizio che per una rara malattia divenne un fenomeno da baraccone nei freak show di fine 1800. Per via del suo corpo deforme veniva presentato al pubblico come The Elephant Man. La sua è una storia di riscatto, ma per il pubblico dei freaks era soltanto l’Uomo elefante.
È così. “Se qualcuno ci dice di non pensare a un elefante, noi penseremo inevitabilmente a un elefante“, scriveva il linguista George Lakoff nel 2006. È un meccanismo cognitivo. Per questo, anche se qualcuno ci dice che fra qualche anno potrebbe scoppiare una guerra mondiale, noi pensiamo a loro. Ai Ferragnez. Perché la voce dentro che ti dice “non pensare ai Ferragnez” non fa che peggiorare le cose.
Per quanto possa essere grande il loro attico a Citylife, siamo tutti noi ad avere un elefante nella stanza. E nonostante sia imponente e minaccioso, non lo vediamo.